PARITÀ DI TRATTAMENTO IN MATERIA DI OCCUPAZIONE e condizioni di lavoro, così evoluti eppure così primitivi

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

 

Sembra del tutto superfluo il concetto espresso nella prima parte dell’oggetto, eppure è frutto di una specifica direttiva europea 2000/78/CE che il 27 novembre del 2000 ha sancito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in tutti gli Stati membri1. Viviamo in un mondo tecnologicamente evoluto eppure, in taluni casi, siamo ancora dei primitivi. I nostri peggiori istinti avanzano inesorabilmente ed i numerosi casi di cronaca ne sono la diretta testimonianza. La violenza, soprattutto tra i giovanissimi, è ormai una condizione all’ordine del giorno ed i valori del rispetto del prossimo e della civiltà sembrano dei “vecchi” concetti inutili e del tutto superati o superabili. Tutto è scusabile, tutto si giustifica, e così ogni individuo è deresponsabilizzato. Nonostante ciò esistono ancora, almeno formalmente, strutture nazionali ed internazionali che garantiscono il rispetto dei diritti umani. Pensiamo alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) o alla Corte di giustizia europea (CGUE), organo dell’Unione europea la cui principale funzione è quella di assicurare l’osservanza ed il rispetto del diritto comunitario tra gli Stati membri dell’Unione stessa.

IL CASO

Proprio la Corte di giustizia europea è stata chiamata ad intervenire su un caso di discriminazione lavorativa che coinvolgeva un lavoratore autonomo.

Nel ribadire i concetti generali della citata direttiva la CGUE ha ricordato che la discriminazione lavorativa può riguardare non soltanto il lavoro subordinato, ma anche il lavoro autonomo (art. 3, co. 1, lett. a) e che ogni Stato membro deve adeguare la propria legislazione interna a tale disposizione.

Il caso2 riguardava un lavoratore autonomo polacco che, in seguito alla pubblicazione su YouTube di un video dove si promuoveva la tolleranza verso le coppie dello stesso sesso, si vedeva cancellati tutti i futuri incarichi assunti con la società con la quale collaborava da anni. Ricorrendo in giudizio presso il Tribunale nazionale, il lavoratore chiedeva il riconoscimento del risarcimento del danno in quanto vittima di una discriminazione diretta fondata sul suo orientamento sessuale. La Corte nazionale, data la carenza del diritto interno e nutrendo dei dubbi sull’applicabilità della direttiva ad un lavoratore autonomo, si era trovata costretta ad adire la Corte di giustizia europea.

La CGUE nel pronunciarsi sul tema ha riaffermato due concetti di notevole importanza: in primo luogo il campo di applicazione della presente direttiva si estende a tutti i lavoratori, sia pubblici che privati, sia essi autonomi che subordinati, ma soprattutto ogni Stato membro dell’UE deve adeguare la propria normativa in tal senso, non essendo negoziabile la tutela dei diritti civili.

Nello specifico il fatto che l’ordinamento polacco non includesse tra le discriminazioni in campo lavorativo quella inerente l’orientamento sessuale del lavoratore autonomo poneva il diritto interno in netto contrasto col diritto comunitario, determinando una concreta violazione cui porre rimedio.

IL NOSTRO ORDINAMENTO

In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro il nostro ordinamento si è adeguato nel 2003 attraverso il D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 includendovi anche la condizione di lavoro autonomo tra le condizioni tutelabili, ma chiarito ciò basta consultare brevemente il web per capire che nel nostro Paese le cose non appaiono certo incoraggianti.

È del marzo 2022 un’indagine Istat3 che ci offre una fotografia davvero deprimente di quella che è o è stata la condizione lavorativa di tanti uomini e donne che per il differente orientamento sessuale hanno subito violenze, minacce o aggressioni.

Oltre all’aspetto dell’avanzamento di carriera, messo in taluni casi a dura prova da una cultura ancora evidentemente elementare e retrograda, nel comunicato stampa colpisce quanto siano alte le percentuali di coloro che temono per la propria incolumità fisica e psichica e che preferiscano non frequentare i colleghi nel tempo libero per evitare di rivelare il loro orientamento sessuale.

Forse l’unica riflessione possibile è proprio legata alla nostra coscienza sociale: educare al rispetto delle diversità probabilmente non è operazione né banale né immediata. Quello che il nostro ordinamento giuridico si trova a disciplinare è un processo ben più ampio, ed ormai anche ben avviato, che fonda le sue radici in una cultura che tutto sommato non riesce a prendere posizione di fronte alle varie forme di violenza e che continua a deresponsabilizzare l’individuo.

 

  1. Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000.
  2. Causa 356/21 del 12 gennaio 2023.
  3. Comunicato Istat 24 marzo 2022 – Discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+.

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MAGGIORAZIONI PER LAVORO STRAORDINARIO, non basta conteggiare le ore di lavoro “effettivo”

Michele Siliato, Consulente del lavoro in Messina e Roma

 

Al vaglio della Corte di Giustizia Europea le regole per il corretto computo delle ore utili per la determinazione del lavoro straordinario e delle relative maggiorazioni. Con la domanda di pronuncia pregiudiziale posta dalla Corte federale del lavoro tedesca (Bundesarbeitsgericht), ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Curia è stata interpellata a chiarire se l’art. 31, par. 2, della Carta e l’art. 7 della direttiva 2003/88 ostino a una disposizione di un contratto collettivo la quale, ai fini del calcolo se e per quante ore un lavoratore abbia diritto ad aumenti per il lavoro straordinario, tenga unicamente conto delle ore effettivamente prestate, ad esclusione delle ore fruite dal lavoratore a titolo di ferie annuali minime retribuite. L’accertamento della compatibilità della disciplina di derivazione collettiva ed il diritto dell’Unione verteva, in particolare, sulle disposizioni dell’art. 7 della sopracitata direttiva, secondo cui gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché venga garantito ad ogni lavoratore il beneficio di almeno quattro settimane annue di ferie retribuite, e le indicazioni contenute nel Manteltarifvertrag für Zeitarbeit (accordo collettivo generale sul lavoro temporaneo), a mente del quale viene stabilito che gli aumenti per gli straordinari sono pagati per le ore prestate oltre le 184 ore per 23 giorni lavorativi con una maggiorazione del 25%. Nel caso di specie, il lavoratore dipendente di un’impresa tedesca adiva il giudice di prime cure sollevando il diritto alla corresponsione delle maggiorazioni per lavoro straordinario per la mensilità di agosto 2017, che comprendeva 23 giorni lavorabili, nella quale lo stesso aveva effettivamente prestato la sua opera per complessive 121,75 ore durante i primi 13 giorni e, successivamente, ha goduto di restanti 10 giorni di ferie annuali retribuite, corrispondenti a 84,7 ore, chiedendo pertanto la corresponsione del supplemento del 25% per 22,45 ore, quale eccedenza rispetto alle 184 ore di cui all’accordo collettivo sopracitato, per una differenza retributiva quantificata in euro 72,32.

A seguito del rigetto della domanda sia in prima istanza che in appello, il dipendente decideva di presentare ricorso in Cassazione (Revision). In tale sede, dall’attenta analisi delle ricadute della disposizione collettiva sopra citata – secondo cui il solo computo delle ore effettivamente lavorate avrebbe potuto incoraggiare i lavoratori a non godere del periodo minimo di ferie annuali retribuite per via della perdita del diritto all’aumento della retribuzione nella misura del 25% delle ore prestate -, si decide di rinviare alla Corte di Giustizia UE se le previsioni contrattuali contestate ostino o meno alla normativa comunitaria. Invero, secondo le rilevazioni dei giudici del Bundesarbeitsgericht le previsioni contrattuali di cui si è detto potrebbero amputare il diritto all’aumento della retribuzione degli straordinari e dissuadere i lavoratori dall’esercitare il diritto al periodo minimo di ferie annuali retribuite. Sostanzialmente, il giudice del rinvio chiede se l’art. 31, par. 2, della Carta e l’art. 7 della direttiva 2003/88 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto all’aumento per le ore straordinarie, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate.

Il percorso giuridico-argomentativo della Corte Europea muove, innanzitutto, dalle disposizioni contenute nell’art. 7, par. 1, direttiva 2003/88, secondo cui gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane, sicché le discipline nazionali devono astenersi dal subordinare a qualsiasi condizione l’esercizio del diritto sopradetto che scaturisce direttamente dalla direttiva comunitaria (sent. 29 novembre 2017, King, C-214/16). Successivamente, come già rilevato in precedenti sentenze, il diritto alle ferie annuali retribuite – sancito anche dall’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – deve essere considerato un principio particolarmente importante nel diritto sociale dell’Unione, potendo le autorità nazionali derogare nei limiti esplicitamente previsti dalla direttiva 2003/88. Come noto, il diritto al godimento di un periodo di ferie annuali retribuite concorre al miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori, garantendo adeguati periodi di riposo, potendosi affermare che l’art. 7 della citata direttiva ha la duplice finalità di consentire al lavoratore il recupero delle energiepsicofisiche sia rispetto all’esecuzione dell’attività lavorativa che alla possibilità di beneficiare di periodi di distensione o ricreazione (sent. 25 giugno 2020, C-762/18 e C-37/19). Ne consegue che gli incentivi a rinunciare al periodo di riposo o volti a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi sono incompatibili con gli obiettivi del diritto alle ferie annuali retribuite, talché qualsivoglia azione o omissione del datore di lavoro, avente un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte del lavoratore, è altresì incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite. In tal senso, la previsione contrattuale che indirettamente comporta una retribuzione inferiore dovuta all’esercizio del diritto di godimento di un periodo di ferie annuali retribuite rischia di indurre il prestatore di lavoro a non prendere il predetto periodo di riposo, per via del conseguente svantaggio finanziario. Pertanto, il meccanismo di conteggio delle ore lavorate, come quello rinvenuto nel procedimento principale, sulla base del quale la fruizione delle ferie può  comportare una riduzione della retribuzione del lavoratore – seppur in un periodo successivo – in quanto quest’ultima viene ridotta dell’importo supplementare previsto per le ore straordinarie effettivamente prestate, è idoneo a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite durante il mese in cui ha effettuato ore straordinarie.

Il sopradescritto meccanismo, dunque, non è in definitiva compatibile con il diritto alle ferie annuali retribuite previsto dall’art. 7, par. 1, della direttiva 2003/88, sicché la Settima Sezione della Corte ha dichiarato che “l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, letto alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto ad un aumento per gli straordinari, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate”.

È ora il caso di guardare al nostro ordinamento. La disciplina nazionale sull’orario di lavoro è regolamentata dal Decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, ed è stata oggetto di apposito approfondimento del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare 3 marzo 2005, n. 8, dove il concetto di orario di lavoro, ancorché definito come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, resta – per parte della dottrina – ancorato al concetto di lavoro effettivo, specie con riferimento alle regole sul lavoro straordinario.

L’orario di lavoro, pur nelle sue innumerevoli sfaccettature è, ai sensi dell’art. 3, comma 1, Decreto legislativo 8 aprile 2003, normalmente fissato in 40 ore settimanali, salvo apposite deroghe – inferiori – stabilite dalla contrattazione collettiva, restando ferma la possibilità di una flessibilizzazione dell’orario normale di lavoro a periodi non superiori all’anno (c.d. orario multiperiodale). Nella citata nota ministeriale viene poi specificato che nel computo dell’orario normale di lavoro (…) non rientrano i periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore ovvero nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni, sicché le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro. I più attenti potranno rilevare che la predetta indicazione amministrativa è posta in continuità con l’analisi del quadro di flessibilità oraria su periodi plurisettimanali o plurimensili, caso in cui vigono regole differenti da quelle ordinarie. Il cortocircuito proviene da una confusionaria interpretazione della definizione di lavoro straordinario – come definito dall’art. 1, comma 2, lett. c), D.lgs. n. 66/2003 – quale lavoro prestato oltre l’orario normale di lavoro così come definito all’articolo 3, che porta ragionevolmente a sostenere che ai fini del raggiungimento dei limiti dell’orario di lavoro settimanale si calcolano i periodi nei quali il lavoratore è al lavoro (nella definizione di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), mentre non si computano tutti i periodi non lavorati, seppur retribuiti (malattia, ferie, infortunio, gravidanza, permessi, festività, etc.). Ci  assunto – a titolo esemplificativo – l’erronea interpretazione della fattispecie porterebbe a non riconoscere le maggiorazioni per lavoro straordinario al dipendente che, chiamato a rendere la prestazione lavorativa da lunedì al venerdì per otto ore giornaliere, fruisca il giovedì di una giornata di ferie, per poi svolgere tredici ore di lavoro il venerdì, recuperando le ore in regime di orario normale di lavoro e, dunque, senza alcun diritto alla superiore retribuzione garantita per le ore “eccedenti”. E se, invece, stipulassimo un contratto di lavoro a tempo parziale su base annua per un numero di ore pari alla prestazione lavorativa richiesta su 11/12 delle mensilità disponibili? Avremmo l’effetto paradossale di non sottoscrivere più alcun contratto a tempo pieno, potendo – con l’artifizio giuridico di far recuperare a retribuzione ordinaria le quattro settimane di non lavoro, volte al godimento del periodo annuale di ferie – completare il cerchio annuo della prestazione lavorativa.

Appare, dunque, logico e condivisibile che l’indicazione ministeriale, secondo cui le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro, è da riferirsi esclusivamente alla fattispecie in cui si applichi un orario di lavoro c.d. multiperiodale, che preveda – per l’appunto – orari settimanali superiori o inferiori al normale orario di lavoro a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla minor durata prevista dalla contrattazione collettiva, nel limite dei dodici mesi mobili. Nel nostro esempio, allora, il lavoratore potrà serenamente fruire di un giorno di ferie il giovedì e vedrà retribuirsi, con le dovute maggiorazioni per lavoro straordinario, le cinque ore extra prestate nella giornata di venerdì. 

 

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