Senza filtro – IL PRIMO MAGGIO: una festa o solo un’occasione di visibilità?

di Alberto Borella – Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

 

Puntuale è arrivato il Primo Maggio con il solito – lasciatemelo dire in tutta franchezza – stucchevole carico di polemiche.

Per carità, nulla di nuovo sotto il sole.

I motivi? Aveva cercato di spiegarceli, due anni or sono, l’amico e collega Andrea Asnaghi che così osservava: «la Festa in questione più che una festa del lavoro appare una festa dei lavoratori. Una festa di lotta, e pertanto in qualche modo divisiva, una rappresentazione di uomini “contro”. E quando si dice lavoratori si parla di quei lavoratori lì, e solo di quelli lì, degli operai, degli sfruttati, in ogni caso dei proletari. Una festa, scusate la parola forte, “comunista”. Prettamente e radicalmente comunista».1 Inevitabili pertanto, in questo clima, le tensioni tra i contrapposti schieramenti alla ricerca di una posizione politica di vantaggio sfruttando appunto la grande visibilità data dalla Festa del Primo Maggio.

Quest’anno però si è davvero esagerato.

Da un lato abbiamo assistito al consueto Concertone durante il quale sono saliti sul palco, ovviamente invitati, alcuni personaggi per trattare temi sociali ma con un taglio politicamente di sinistra. Qui il fuoco di fila della maggioranza di Governo è apparso finanche sopra le righe considerando il fatto che il Concerto del Primo Maggio è organizzato dai Sindacati, per l’esattezza la cosiddetta Triplice, e non certo dalla Presidenza della Repubblica. E in effetti il Concertone mica è la commemorazione ufficiale della Festa del Lavoro, o dei Lavoratori che dir si voglia.

È un evento che è sì un simbolo ma resta un evento organizzato da una certa parte “politica” che nel tempo se ne è appropriata e non intende certo rinunciare a questa esclusiva. Partendo da questo dato di fatto di sicuro non si poteva pretendere che si invitasse sul palco un sostenitore dei contratti a termine o dei voucher.

Non sono poi mancati gli strali delle opposizioni che hanno ritenuto propagandistica la scelta del Governo di convocare un tavolo di lavoro con i Sindacati proprio il giorno della Festa del Lavoro. Nei fatti un’accusa di sciacallaggio mediatico. Anche qui non si capisce la polemica. La Festa del lavoro è ad appannaggio esclusivo della “sinistra” che, in questo giorno, può solo lei manifestare o esternare dei pensieri sul tema? Certo che no.

Ma forse sta proprio qui la spiegazione: la paura che quella parte politica, che da questa festa ha sempre ricavato visibilità, la possa perdere a favore di altri.

Infine, è arrivato Landini. Anche lui approfittando legittimamente della visibilità della ricorrenza per rimarcare le proprie idee critiche contro l’operato dell’esecutivo, censurando in primis la scelta del Governo di convocare un tavolo di lavoro con i Sindacati proprio il giorno della Festa del Lavoro ritenendo «non troppo rispettoso decidere di fare un Consiglio dei ministri il Primo Maggio. Pensare al lavoro, ai  lavoratori, vuole dire mettere al centro il lavoro non un giorno all’anno, ma tutti i giorni.». A dire il vero non si capisce bene cosa volesse intendere il Segretario generale della CGIL. Sta forse dicendo che, poiché il Governo non si è mai occupato di lavoro durante l’anno (affermazione tutta da dimostrare: un progetto di legge non si fa in un giorno), non potrebbe farlo proprio il 1° Maggio? Ma poi, irrispettoso di chi e di che? Perché si chiede ai rappresentanti dei lavoratori di lavorare per i lavoratori? Oppure voleva soltanto dire che la Festa del lavoro, pardon la Festa dei Lavoratori, è una sorta di festa pagana durante la quale, sulla falsa riga di certe religioni, non si può andare a lavorare altrimenti si fa peccato? Secca la replica della Premier che, sfruttando l’ambiguità delle parole del Segretario, ha ribattuto sarcastica che «Se Landini pensa davvero che sia diseducativo lavorare il primo Maggio, allora il concerto la triplice dovrebbe organizzarlo in un altro giorno».

Questo, piaccia o no, il livello dialettico.

Certo, si tratta di polemiche, in linea con quello che è il mondo di oggi dove l’apparire conta più dell’essere.

Dove la risonanza mediatica dello slogan conta più della sostanza dell’operare. Dove per apparire diversi, per non confondersi con gli “altri”, è necessario dire sempre che «noi la pensiamo diversamente.».

Come si diceva, nulla di nuovo sotto il sole della politica italiana.

Sarebbe però ingiusto ridurre il confronto a puerile polemica populista. Se è vero che i toni polemici servono per la “pesca” di voti o di consenso, a monte c’è sempre uno scontro tecnico: la convinzione, per taluni, che un contratto a tempo indeterminato sia sempre meglio di uno a termine in un’ottica di stabilità del rapporto.

Che detta così pare pure condivisibile. Ma vista la cosa da un’angolazione diversa queste certezze vacillano. È incontestabile il fatto che, in linea teorica, un contratto a tempo indeterminato può essere sempre e comunque risolto, oltre che per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, anche per un motivo oggettivo. E questo in ossequio al principio di libera iniziativa economica stabilita dall’art. 41 della nostra Costituzione. Se pertanto una ditta vuole chiudere – e quante ne abbiamo viste ultimamente con i tanti lavoratori invitati ai vari talk politici – a cosa serve un contratto stabile? Se un imprenditore vuol convertire la produzione, automatizzando alcuni processi e ridurre il personale, o trasferirsi all’estero, a che serve un contratto a tempo indeterminato? Idem se si tratta di un lavoratore che ha rubato o più semplicemente è un fannullone.

La domanda che allora ci poniamo è perché un’impresa dovrebbe aver timore ad assumere a tempo indeterminato?

Ad esempio, se io fossi un imprenditore e vivessi in un paese pienamente garantista dell’art. 41 della Carta Costituzionale, preferirei assumere tutti a tempo indeterminato. La motivazione è semplice: una assunzione a termine di un anno garantisce di regola uno stipendio per dodici mesi mentre un contratto a tempo indeterminato potrebbe essere risolto per “riduzione di personale” il mese dopo con il rispetto del solo periodo di preavviso. Ove quindi incontrassi nei prossimi mesi delle difficoltà produttive gestirei un’eventuale riduzione di personale con più facilità.

Eppure questa mia scelta non è condivisa nel nostro sistema produttivo e un perché lo dobbiamo trovare.

La risposta sta nel fatto che oggi la disciplina sui licenziamenti, continuamente stravolta da interpretazioni giurisprudenziali – con il Jobs Act fatto a pezzi un po’ alla volta – è divenuta un vero e proprio deterrente anche per chi ha un valido motivo per un licenziamento disciplinare. Le certezze di aver operato correttamente son sempre meno. E ormai è diventato più facile divorziare dalla moglie che “separarsi” da un proprio dipendente.  E, di contro, perché i Sindacati spingono per limitare il ricorso a contratti precari, in primis i contratti a termine? Perché tutto questo astio nei confronti dei voucher?

La giustificazione che ho sentito dare è che i giovani, senza un contratto a tempo indeterminato, non hanno una tranquillità economica e quindi non possono accedere ad un mutuo, rinunciano a sposarsi e ad avere dei figli. Questo perché un contratto a tempo indeterminato è stabile.

Fosse così semplice basterebbe che lo Stato si facesse garante verso le banche per i lavoratori con contratto a termine.

Ma si è anche detto che il nuovo Decreto lavoro alimenta la precarietà a causa della rivisitata disciplina dei contratti a termine e le modifiche alla disciplina dei voucher. Per inciso, non ho sentito parlare in modo altrettanto critico della somministrazione a tempo determinato dove le proroghe possono essere il doppio rispetto ad un contratto a termine stipulato direttamente con l’azienda. Qui nessuna precarietà? La cosa che comunque desta le mie perplessità è sentire ancora oggi, ribadita anche da alcuni esponenti sindacali, l’idea che il lavoro stabile lo si ottiene abolendo i voucher o addirittura i contratti a termine. Niente di più ideologicamente sbagliato.

La precarietà si sconfigge non con leggi che precludono il ricorso a contratti precari, ma con norme che creano opportunità di occupazione e soprattutto un clima sereno, di certezza, per quegli imprenditori che, dopo un picco produttivo, decidano di ridurre il personale, anche quello a tempo indeterminato, o che vogliano eliminare le “mele marce” dalla loro azienda. Invece si continua a spingere i contratti stabili con una sorta di mazzetta di stato: «Se offri il posto fisso ad un mio amico disoccupato ti regalo qualche migliaio di euro».

Ma consideriamo soprattutto il fatto che una azienda che ha necessità di integrare saltuariamente o temporaneamente il proprio organico non è affatto detto che con una eventuale abolizione dei contratti precari si metterebbe ad assumere a tempo indeterminato. Sarebbe come dire che vietando i contratti a tempo parziale tutti assumerebbero a tempo pieno. Più facile che, vietandoli, questi rapporti finiscano, o tornino, nel lavoro nero. Del resto i contratti “precari” genuini rispondono a esigenze che non possono essere ignorate. Se vogliamo solo contratti a tempo indeterminato l’alternativa sarebbe fare come ha fatto la Spagna – in questa diatriba impropriamente citata dai critici del decreto come esempio da seguire – dove hanno sì limitato i contratti a termine ma allentato le conseguenze economiche per i licenziamenti illegittimi nei contratti a tempo indeterminato. Dove, tanto per intenderci, non esiste la reintegrazione nel posto di lavoro come prevista in Italia. Altro e diverso discorso è invece combattere severamente gli utilizzi impropri di questi strumenti, cosa che le vigenti regole mi pare cerchino di fare. Vogliamo migliorarle? Inasprirle? Ok, si discuta del come.

Ma evidentemente queste considerazioni non convincono i Sindacati che continuano a preferire i contratti a tempo indeterminato e anche qui un perché lo dobbiamo trovare. La verità è di fatto la stessa che abbiamo dato per giustificare la preferenza dei datori di lavoro verso i cosiddetti contratti precari. Oggi – complice una disciplina sui licenziamenti, continuamente stravolta da interpretazioni giurisprudenziali, divenuta un vero e proprio deterrente anche per chi avrebbe un motivo valido per un licenziamento disciplinare – si pensa che il contratto a tempo indeterminato sia un simil posto fisso del pubblico impiego tanto caro a Checco Zalone.

In pratica, una volta ottenuta la conferma in servizio nessuno ti licenzia più, la tua stabilità non te la toglie nessuno e se ci provasse ci pensa un giudice a trovare un motivo per dire che non si poteva fare. E questa cosa, ove fosse vera, non mi pare sia qualcosa che faccia bene all’economia.

Del resto lo vediamo bene come funziona la nostra Pubblica Amministrazione dove di fatto non esiste precarietà.

Ed allora vi invito ad una considerazione partendo dal fatto che il datore di lavoro pubblico non è come quello privato, un “cattivone” che licenzia uno bravo per sostituirlo con un incapace a basso costo.

Ora, se nel settore pubblico tutti i contratti fossero a termine e venissero rinnovati solo a coloro che lavorano bene, scommettiamo che le cose andrebbero meglio? Discorso populista? Forse, ma di certo non ho cominciato io per primo.

Non perdiamo però di vista che questa rubrica si intitola Senza Filtro e non sarebbe tale senza un pensiero irriverente.

E oggi le nostre punzecchiature le vogliamo rivolgere a Maurizio Landini, un capopopolo con il fare antipatico da maestrina. Quante volte lo abbiamo sentito urlare il suo, condivisibile, grido di battaglia contro il lavoro povero, quello sottopagato?

Deve essere sfuggita al Segretario generale della CGIL la recente Sentenza del Tribunale di Milano dello scorso 30 marzo che ha dichiarato irrispettoso del dettato costituzionale dell’art. 36 – quello che dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa – un Ccnl che prevedeva una paga oraria effettiva di 3,96 all’ora, ben al di sotto della soglia di povertà stimata dall’Istat.

Sapete chi ha firmato questo vergognoso contratto? Ma che sorpresa: proprio la CGIL di Landini insieme alla CISL!

E che dire poi delle critiche al lavoro precario, quello dei contatti a termine e delle prestazioni occasionali a voucher.

Questi contratti vengono osteggiati in quanto bollati da una certa parte politica quale incentivo alla precarietà oltre che causa di sfruttamento dei lavoratori.

Ecco, a proposito di sfruttati e di sfruttatori mi piacerebbe che qualcuno mi togliesse una curiosità ovvero se la macchina organizzatrice ha utilizzato, per la kermesse del Primo Maggio, Concertone compreso, dei volontari. Già, i volontari, quelli che lavorano gratis quando qualche padre di famiglia si prenderebbe volentieri anche uno sporco voucher per dare da magiare ai propri bambini. Ecco, questo lo trovo poco “rispettoso”. Utilizzare, per la Festa dei LAVORATORI, un qualcuno che, non essendo in stato di bisogno, è disposto a lavorare benevolentiae vel affectionis causa, al posto di chi, un paio di centinaia di euro, farebbero davvero comodo.

Certo, li capiamo gli organizzatori: l’utilizzo di un volontario rende più semplice la gestione della prestazione. Volete mettere il dover appaltare il servizio o l’assumere direttamente un lavoratore con annessa lettera assunzione nel rispetto del Decreto Trasparenza, Centro impiego, COB, busta paga e Libro Unico, Uniemens, versamento con F24, stipula contratti a termine con l’obbligo della causale in caso di rinnovo, Certificazione Unica. Per non dire gli adempimenti in materia di sicurezza. Ma vorrei anche che mi si dicesse che non sono stati affidati appalti ad aziende che utilizzano, o hanno in precedenza utilizzato, prestazioni pagate con i voucher.

Vorrei che mi si dicesse che sono stati utilizzati – in modo diretto o indiretto – durante tutta la manifestazione solo lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato. Un po’ come capita per quelle imprese che si rifiutano di collaborare con aziende che ricorrono allo sfruttamento del lavoro infantile. Ecco, questo sarebbe un grande segnale di coerenza.

E perché non dal prossimo anno, urlandolo a gran voce dal palco del Concertone. Magari invitando il grande Umberto Tozzi a cantare: «Primo Maggio, su coraggio …».

 

1. Si veda A. Asnaghi, Il Primo Maggio: Festa dei lavoratori o del Lavoro? in questa Rivista, aprile 2020, pag. 4

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