OBBLIGO DI REPÊCHAGE: passato, presente e futuro. Parte II
di Emilia Scalise – Consulente del lavoro in Milano
Si riparte con la seconda parte del contributo volto a ripercorrere la genesi dell’obbligo di repêchage e sui suoi effetti sulle scelte imprenditoriali. Se nella prima parte i riflettori erano sulle origini e sull’evoluzione dell’obbligo di repêchage, la seconda si ripropone di approfondire la relazione sempre più forte che si è creata negli anni tra l’obbligo di repêchage e lo ius variandi, anche alla luce delle modifiche apportate dal Jobs Act, per poi concludere questo percorso analizzando il nuovo orientamento giurisprudenziale della Corte costituzionale in tema di violazione dell’obbligo di repêchage. Non resta che augurare nuovamente buona lettura.
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IL RUOLO DELLO IUS VARIANDI NELL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE
Riprendiamo il percorso focalizzandoci sul rapporto instauratosi tra obbligo di repêchage e ius variandi, grazie alla numerosa produzione giurisprudenziale che è partita dalla nascita di questo obbligo fino a oggi, attraverso nuove pronunce dettate dalle recenti modifiche introdotte dal Jobs Act. Non vi è alcun dubbio che la modifica apportata all’art. 2103 c.c. dal D.lgs. n. 81/2015 abbia rafforzato il rapporto creatosi nel tempo tra ius variandi e obbligo di repêchage: proprio in virtù della nuova formulazione, tale onere risulta sicuramente ampliato, dovendo avere come parametro di riferimento non solo tutte le mansioni riconducibili al livello di inquadramento del lavoratore ma anche al livello inferiore. Prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, infatti, l’orientamento giurisprudenziale era stato influenzato dal concetto di equivalenza nel rispetto del limite legale del bagaglio professionale del lavoratore.
Seppur ai tempi l’orientamento prevalente riconducesse l’adempimento dell’obbligo di repêchage a mansioni equivalenti a quelle effettivamente svolte dal lavoratore licenziato, una parte della dottrina e della giurisprudenza non aveva però del tutto escluso la possibilità di adibire il lavoratore anche a mansioni inferiori come rimedio alternativo al licenziamento in presenza del consenso del lavoratore, ancor prima dell’entrata in vigore della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. Sul tema, tra le diverse pronunce di merito1, si segnala in particolare la Sentenza della Cassazione Sezione Lavoro del 13 agosto 2008, n. 21579 che, discostandosi dall’orientamento prevalente del tempo (obbligo di repêchage possibile solo per le mansioni equivalenti), ha sostenuto il principio secondo cui il datore di lavoro, in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, avesse l’onere di provare di aver prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenere il consenso, l’impiego a mansioni inferiori: “Questa Corte, già con risalente giurisprudenza, ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 2103 c.c., la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l’esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma. […]”.
Alla luce delle modifiche legislative apportate dal Jobs Act, dal punto di vista normativo risulta quindi superato il limite del necessario rispetto della professionalità del lavoratore, avendo introdotto lo stesso Legislatore quale ipotesi di giustificata dequalificazione del lavoratore la conservazione del posto di lavoro, seppur subordinandone l’applicazione al mutuo consenso tra le parti.
Appare, quindi, di rilavante interesse ripercorrere quello che è l’attuale orientamento della giurisprudenza sulla questione delle mansioni inferiori dopo la modifica dell’art. 2103 c.c.. Anzitutto le prime sentenze emesse dalla Corte di Cassazione hanno richiamato nei propri passaggi motivazionali la nuova disposizione del D.lgs. n. 81/2015, sostenendo come la nuova disciplina normativa risultasse confermativa della sussistenza dell’obbligo di repêchage da estendersi anche alle mansioni inferiori. In particolare, alcune pronunce giurisprudenziali hanno posto in capo al datore di lavoro l’onere di provare non solo che non sussiste alcuna posizione analoga a quella soppressa, “ma anche di aver prospettato al licenziamento, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un impiego a mansioni inferiori” 2.
Non solo.
La Cassazione altresì ha affermato che, con riferimento alla fattispecie della soppressione del posto di lavoro, in conseguenza di una riorganizzazione aziendale, è ravvisabile una nuova situazione di fatto inerente al nuovo assetto organizzativo dell’impresa che legittima il consequenziale adeguamento del contratto mediante l’adibizione a mansioni inferiori che consentano la conservazione del posto di lavoro3 e che l’onere del datore di lavoro di provare l’adempimento dell’obbligo di repêchage va assolto con riferimento anche a posizioni di lavoro inferiori, stabilendo che “il datore di lavoro, in conformità al principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, è tenuto a prospettare al lavoratore la possibilità di un impiego in mansioni inferiori quale alternativa al licenziamento”4.
Nei primi anni di entrata in vigore della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. si andò quindi a consolidare la tesi dell’obbligo di repêchage riconducibile anche in mansioni inferiori, delineandosi così un onere datoriale ancora più stringente rispetto a quello formatosi prima della modifica apportata dal Jobs Act. Tale assunto è avvalorato non solo dagli orientamenti giurisprudenziali che si sono venuti a creare nel tempo, ma anche da due specifiche disposizioni legislative proprio contenute nel nuovo art. 2103 c.c.: da un lato lo stesso comma 2 prevede la possibilità in capo al datore di lavoro di assegnare al lavoratore mansioni inferiori in presenza di assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore; dall’altro il comma 6 consente al datore di lavoro di sottoscrivere patti di demansionamento con il lavoratore, previo consenso di quest’ultimo e purché in sede protetta, al fine della conservazione del posto di lavoro. È evidente come la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. abbia sollevato il dubbio circa l’effettiva sussistenza per il datore di lavoro, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di un obbligo o di una mera facoltà di ricercare posizioni alternative, anche ricorrendo a mansioni inferiori, per la tutela dell’occupazione. Al riguardo due diversi orientamenti in dottrina. Una parte ritiene il repêchage un obbligo in capo al datore di lavoro, alla luce delle nuove disposizioni contenute nell’art. 2103. In particolare, alcuni autori hanno sostenuto che nella nuova formulazione il noto principio di origine giurisprudenziale dell’extrema ratio del licenziamento economico potrebbe aver trovato una traduzione legale: il licenziamento risulterebbe ingiustificato in tutti i casi in cui all’interno dell’organizzazione aziendale, con l’esercizio del potere di variare le mansioni (in orizzontale, in basso e in alto), si possano trovare spazi di utilizzo alternativo del dipendente. In tal caso, affiorerebbe un’intima correlazione giuridico funzionale tra la nuova disciplina del mutamento di mansioni e le ipotesi di licenziamento illegittimo5.
Di contro, altri orientamenti hanno ritenuto insussistente un obbligo in capo al datore di lavoro di ricorrere allo ius variandi in peius per evitare il recesso del lavoratore, essendo inammissibile che il “può” di cui al comma 2 dell’art. 2103 c.c. diventi un “deve”, trattandosi di un potere rientrante nella libera scelta dell’imprenditore quello dell’assegnazione a mansioni inferiori6.
Si ricorda infatti che l’art. 2103 del c.c. recita come segue: “[…] In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore […]. Nelle sedi di cui all’articolo 2113 quarto comma o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione […]”
In particolare, una diversa impostazione potrebbe incorrere in una pronuncia di incostituzionalità in quanto il comma 5 della medesima disposizione imporrebbe al datore di lavoro, in caso di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, di mantenere la stessa retribuzione. In questo modo, “il datore di lavoro verrebbe onerato di costi aggiuntivi concedendo al dipendente una sorta di qualifica convenzionale o un superminimo per salvargli il posto” 7. La dottrina ha ritenuto altresì paradossale addossare al datore di lavoro un obbligo di repêchage su mansioni inferiori con conservazione del maggior costo retributivo delle superiori mansioni precedentemente svolte8. Considerando le tesi di cui sopra, l’orientamento prevalente è giunto a sostenere che il datore di lavoro, laddove decidesse di sopprimere il posto di lavoro, avrebbe solo un onere e non un obbligo prima di intimare il licenziamento, ossia quello di “proporre al lavoratore interessato la stipula di un accordo ai sensi del sesto comma dell’articolo 2103 del Codice civile e, solo in caso di rifiuto da parte del dipendente a stipulare un patto di demansionamento, potrebbe procedere al licenziamento dello stesso” 9.
Da ultimo, appare doveroso aprire una piccola parentesi in merito alla casistica della sopravvenuta inidoneità alla mansione e le eventuali ripercussioni legate all’obbligo di repêchage. In tema di disciplina applicabile ai casi di sopravvenuta inidoneità alla mansione, risulta ormai superata la tesi secondo la quale è legittima la risoluzione automatica del rapporto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1464 c.c.10 in caso di definitiva perdita parziale della capacità lavorativa. Inizialmente, infatti, la giurisprudenza sosteneva che in caso di definitiva perdita parziale della capacità lavorativa trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 1464 c.c. e che quindi era “consentito il recesso dell’imprenditore senza che questi sia gravato dall’onere di provare che nell’azienda non vi sia altro posto per mansioni confacenti alle condizioni dei lavoratori” 11.
La tesi di cui sopra è stata del tutto superata a partire dalla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite del 7 agosto 1998, n. 7755, la quale ha introdotto l’orientamento secondo cui la regola della risoluzione automatica del contratto non può trovare applicazione nel diritto del lavoro proprio per la specialità della materia; pertanto, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, come tale non riconducibile ad una forma di inadempimento del lavoratore, non estingue automaticamente il rapporto di lavoro, ma può costituire un giustificato motivo oggettivo di licenziamento che presuppone l’adempimento dell’obbligo di repêchage da parte del datore.
In caso di inidoneità alla mansione, il datore di lavoro prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo è tenuto a verificare se il lavoratore è idoneo a svolgere altre mansioni equivalenti o a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, secondo la nuova formulazione dell’art. 2103 c.c.. In assenza di mansioni facenti parte dello stesso livello, il datore di lavoro è altresì tenuto a verificare la disponibilità di mansioni inferiori da poter offrire al lavoratore, purché confacenti con l’inidoneità sopravvenuta, con dei patti di demansionamento.
È possibile quindi sostenere che la giurisprudenza ha qualificato il recesso dal rapporto di lavoro per inidoneità sopravvenuta del lavoratore fattispecie rientrante nel giustificato motivo oggettivo, seppur dipendente dal prestatore di lavoro. Sul tema si richiama una significativa pronuncia della Cassazione (Sezione Lavoro del 9 maggio 2019, n. 12373), la quale ha definito il principio generale, in tema di inidoneità sopravvenuta del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate, secondo cui il datore di lavoro può procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo laddove il lavoratore possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse. In particolare “il principio generale, in tema di sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate è quello del licenziamento per giustificato motivo oggettivo L. n. 604 del 1966, ex art. 3, con diritto al termine e all’indennità di preavviso, ove il lavoratore possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse; qualora, invece, la prestazione sia divenuta totalmente e definitivamente impossibile, senza possibilità di svolgere mansioni alternative, dovrà ravvisarsi una causa di risoluzione del rapporto che non ne consente la prosecuzione, neppure, provvisoria ex art. 2119 c.c., ed esclusa, conseguentemente, l’applicabilità dell’istituto del preavviso”.
In altre parole, l’obbligo in capo al datore di lavoro non può essere di portata tale da imporgli di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda da lui stesso insindacabilmente stabilito o da comportare oneri organizzativi eccessivi o da determinare a carico di singoli colleghi dell’invalido la privazione delle mansioni o lo stravolgimento delle modalità di esecuzione della loro prestazione lavorativa. Ne consegue che è legittimo il licenziamento per sopravvenuta e permanente inidoneità di un lavoratore quando l’adozione degli opportuni adattamenti organizzativi comporti, oltre che oneri finanziari non proporzionati, un inasprimento dei rischi per la salute e sicurezza per gli altri lavoratori nonché inefficienze produttive12.
L’OBBLIGO DI REPÊCHAGE E IL RAPPORTO CON POSIZIONI PROSSIME VACANTI
Già nella prima parte di questo contributo era stato rilevato come l’obbligo di repêchage risulti essere assolto non solo verificando la possibilità di assegnazioni ad altre posizioni già presenti in azienda all’atto del licenziamento, ma anche l’esistenza di assunzioni successive in posizioni organizzative equiparabili a quelle precedentemente occupate dal lavoratore licenziato. In tema di nuove assunzioni effettuate dal datore di lavoro a seguito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la giurisprudenza si è pronunciata stabilendo che se nel breve periodo successivo al licenziamento l’azienda procede a nuove assunzioni per ricoprire mansioni equivalenti a quelle svolte dal dipendente licenziato, opera una presunzione di illegittimità del licenziamento stesso. Tuttavia, nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, è possibile licenziare dei dipendenti per soppressione delle posizioni da queste ricoperte e assumerne di nuovi, qualora i nuovi assunti non vadano a ricoprire le posizioni lasciate vacanti dai dipendenti licenziati13. Proprio con riferimento a questo aspetto, la giurisprudenza di recente è andata oltre, individuando la possibilità di ricollocare il lavoratore prima del licenziamento anche a posizione lavorative che, pur essendo ancora coperte in azienda, potrebbero rendersi disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il licenziamento. La Sentenza di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 12123 dell’8 maggio 2023 ha quindi allargato nuovamente l’obbligo di repêchage stabilendo che, nel valutare la ricollocabilità del lavoratore prossimo al licenziamento, il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame anche delle posizioni “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”. Occorre evidenziare in tal senso i fatti in causa. Il caso di specie vede protagonista un lavoratore che, a seguito di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto di lavoro a cui era addetto (avvenuto in data 3 maggio 2011), vince ricorso in primo e secondo grado di giudizio, ottenendo la reintegra, in relazione alla denunciata inosservanza dell’obbligo di repêchage, poiché, al momento dell’intimazione al licenziamento, due dipendenti che svolgevano mansioni fungibili a quelle a lui assegnate, avevano rassegnato dimissioni (incentivate) con un termine di preavviso destinato a scadere in un arco temporale brevissimo dal licenziamento stesso (31 maggio 2011). I giudici di primo e secondo grado, nonché poi la Corte stessa, hanno ritenuto che le dimissioni di tali lavoratori determinassero posizioni lavorative “disponibili in un arco temporale prossimo”, seppur la società avesse dimostrato che disponibili non fossero, dal momento che non sono susseguite nuove assunzioni successive per ricoprire tali posizioni. In particolare, la Cassazione ha sottolineato che “[…] la possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”. È evidente come questa sentenza lasci riflettere su come nuovamente il diritto costituzionale alla libertà di impresa venga in qualche modo nuovamente compresso, dal momento che, nel caso concreto di specie, non ci fosse alcuna effettiva disponibilità di posizioni lavorative “aperte” in cui il lavoratore potesse essere ricollocato.
IL CONCETTO DI “MANIFESTA INSUSSISTENZA DEL FATTO” CON RIGUARDO ALL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE
Direi di cambiare in parte argomento e passare a un tema che in qualche modo è già stato accennato nella prima parte di questo contributo ossia le tutele poste dal Legislatore in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ritenuto “illegittimo”. La normativa di riferimento è contenuta sia all’art. 18 della Legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), modificata dalla Riforma Fornero (L. n. 92/2012), che dal Decreto Legislativo n. 23/2015.
In particolare, l’articolo 18, L. n. 300/1970 trova applicazione ai lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015), mentre la disciplina contenuta nel D.lgs. n. 23/2015, trova applicazione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1 della stessa disposizione normativa a tutti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti a decorrere dal 7 marzo 2015 con lavoratori che rivestono la qualifica di operaio, impiegato, quadro14. Non solo, il Legislatore del 2015 non si è limitato alle sole categorie di lavoratori sopra menzionate, ma ha ampliato la sfera applicativa della nuova regolamentazione estendendola anche ai lavoratori assunti con:
- contratto a termine, stipulato anche in data antecedente al 7 marzo 2015, successivamente convertito in contratto a tempo indeterminato all’entrata in vigore del Jobs Act15;
- contratto di apprendistato, stipulato anche in data antecedente al 7 marzo 2015, successivamente convertito in contratto a tempo indeterminato all’entrata in vigore del Jobs Act16;
- contratto a tempo indeterminato, stipulato in data antecedente al 7 marzo 2015, qualora, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del Jobs Act, il datore di lavoro abbia raggiunto il requisito dimensionale previsto dall’art. 1817.
Rimangono invece esclusi i dirigenti sia per quanto concerne la disciplina prevista nell’articolo 18, L. n. 300/1970 che nel D.lgs. n. 23/2015, ad eccezione delle tutele poste dal legislatore nei casi di licenziamento nullo, intimato in forma orale, discriminatorio e ritorsivo.
Partendo con l’analisi dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il Legislatore ha previsto al comma 7 secondo periodo che, in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, accertata in giudizio, il giudice può annullare il licenziamento e condannare il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore, in aggiunta al pagamento dell’indennità risarcitoria e dei contributi previdenziali per il medesimo periodo e nella stessa misura prevista in caso di illegittimità del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
A differenza della disciplina prevista per la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo di licenziamento, dove la reintegra è obbligatoria se il fatto contestato non sussiste, in questo caso il Legislatore ha riposto nel giudice una facoltà nell’applicazione della tutela reale. Su questo margine di scelta lasciata al giudice si è espressa più volte la Corte di Cassazione, la quale, in contrasto con quanto dettato dalla legge, ha sempre ribadito che “se le ragioni addotte a fondamento di un licenziamento per motivo oggettivo sono manifestamente insussistenti sul piano fattuale, al giudice non è data alcuna scelta sul regime di tutela applicabile” 18. Nello specifico, la Corte ha affermato che l’inciso dell’art. 18, a norma del quale il giudice “può altresì applicare” il regime di tutela reale, in realtà non lascia alcun margine di scelta, posto che, se la ricostruzione dei fatti dedotta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento è manifestatamente insussistente, l’unica sanzione applicabile è la reintegra. Qualora non venga riscontrata la manifestata insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, la Legge Fornero stabilisce l’applicazione della tutela obbligatoria prevista per il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Con riferimento, invece, al Decreto Legislativo del 4 marzo 2015, n. 23, l’articolo 3 al comma 1 prevede un’unica tutela a favore del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo: la tutela risarcitoria. Nello specifico, qualora venga accertato in giudizio che non ricorrono gli estremi del licenziamento, il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro e condannerà il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria, non soggetta a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
È opportuno precisare che le tutele sopra descritte si applicano ai datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti come definito dall’articolo 18, comma 8 della L. n. 300/197019. Con riferimento ai datori di lavoro privi dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8:
- l’art. 8 della Legge n. 604/1966 prevede quale tutela o la riassunzione o il pagamento di una indennità risarcitoria non inferiore alle 2,5 mensilità e non superiore alle 6 mensilità parametrate sulla retribuzione globale di fatto, per quanto riguarda i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015;
- l’articolo 9 del D.lgs. n. 23/2015 prevede quale tutela l’indennità risarcitoria prevista all’articolo 3 comma 1, ma ridotta della metà e comunque per un importo non superiore alle 6 mensilità della retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per i lavoratori rientranti nella classificazione ci cui all’articolo 1 della medesima disposizione legislativa.
La facoltà assegnata al giudice dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori circa la valutazione della “manifesta insussistenza del fatto” posta alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha aperto un dibattito anche sul tema dell’obbligo di repêchage. In particolare, si iniziò a chiedersi se tale obbligo fosse ancora da iscriversi ai “ fatti posti alla base del licenziamento” ovvero se fosse solo una conseguenza ulteriore, successiva alla valutazione sulla motivazione del licenziamento (per esempio se determinato dalla soppressione o dalla esternalizzazione delle lavorazioni)20: inizialmente, si sostenne che la violazione del repêchage comportasse conseguenze meramente economiche, con esclusione della reintegrazione21; successivamente, si allargò la tutela reale anche alla violazione dell’obbligo di ripescaggio. Anche su questo dubbio interpretativo, il primo intervento risolutivo arrivò proprio dalla Cassazione: “la verifica del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore 22”. Questo dubbio circa la tutela applicativa è poi venuto meno con riferimento ai lavoratori rientranti nella disciplina contenuta nel D.lgs. n. 23/2015: qui il Legislatore ha previsto solo l’indennità risarcitoria quale tutela obbligatoria per il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo.
Nonostante il Legislatore appaia più chiaro con riferimento ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, la giurisprudenza, e in questo caso proprio la Corte costituzionale, non ha mancato di intervenire al riguardo, stabilendo che, qualora la violazione dell’obbligo di repêchage sia evidente e plateale, tale circostanza potrà vedere accertata la natura ritorsiva del licenziamento, con conseguente applicazione della tutela reale23.
TUTELE IN CASO DI VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE: IL NUOVO ORIENTAMENTO DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
Vorrei concludere il presente contributo ponendo l’attenzione su una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 125/2022, che, esprimendosi sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, è intervenuta indirettamente anche sull’obbligo di repêchage. In primo luogo, la Corte costituzionale, al punto 8 del considerando in diritto, ha precisato che “Nell’ambito del licenziamento economico, il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso”.
Non solo.
La Corte costituzionale con tale sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, della L. n. 300/1970, limitatamente alla parola “manifesta”, precisando che “Quando sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reintegratoria, oggi non più facoltativa in seguito all’intervento correttivo di questa Corte 24”.
Nessun dubbio per ciò che concerne il contenuto del concetto di “nucleo” del giustificato motivo oggettivo e relativa applicazione della tutela reale: rientrano le ragioni a fondamento del licenziamento e il nesso causale che deve sussistere tra il licenziamento e il motivo che lo ha ricondotto.
Appare, invece, meno limpida la connotazione secondo cui rientri anche l’eventuale violazione dell’obbligo di repêchage. In particolare, ci si chiede se, a fronte della violazione dell’obbligo di repêchage, il giudice (a questo punto) debba applicare la tutela reale in luogo di quella obbligatoria. A risolvere tale problema subentra proprio la Corte costituzionale che, al punto 5.1 del considerando in diritto, richiama all’attenzione un’altra sentenza, sempre sul tema, della stessa illustrissima Corte: il punto 5 del considerando in diritto della Sentenza n. 59/2021, il quale afferma che “Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative […], il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 marzo 2020, n. 7471). Tale requisito, che il rimettente non censura, si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”.
CONCLUSIONI
Appare importante sottolineare come la sentenza n. 125/2022 della Corte costituzionale, da un lato, ha uniformato le tutele applicabili al lavoratore soggetto alla medesima disposizione legislativa (l’art. 18 Statuto dei lavoratori) in caso di licenziamento “illegittimo”, attribuendo la tutela reintegratoria anche all’ipotesi del giustificato motivo oggettivo, eliminando quell’arbitrarietà in capo al giudice di merito; dall’altro lato, però, questo orientamento trova applicazione solo in favore dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, in quanto concentra l’attenzione sull’incostituzionalità del secondo periodo del comma 7 dell’articolo 18. È evidente come i giudici siano riusciti a risolvere la disparità di trattamento in senso verticale circa le tutele poste dalla stessa disposizione normativa in caso di licenziamento “illegittimo”, ma, così facendo, viene maggiormente rimarcata la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori assunti in data successiva al 7 marzo 2015, ai quali la disciplina prevista dal Jobs Act riconduce solo la tutela indennitaria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo “illegittimo”. In attesa di un intervento legislativo che possa mettere “nero su bianco” la riconducibilità dell’obbligo di repêchage come un elemento costitutivo circa la valutazione della sussistenza alla base del licenziamento, alla luce di tale pronuncia della Corte costituzionale, è possibile sostenere che almeno i lavoratori rientranti nella tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, a fronte della mancata ricollocazione, laddove possibile, beneficino sempre della tutela reale25.
In ogni caso appare spontaneo chiedersi quali saranno i risvolti futuri di questa importantissima pronuncia della giurisprudenza costituzionale a fronte dell’impatto incisivo di tale intervento sulla disciplina della Riforma Fornero e (non di meno importanza) vista la conseguente accentuazione della disparità di trattamento nei confronti di lavoratori in ragione della sola data di assunzione, dal momento che la tutela applicata, allo stato attuale delle cose, risulta essere diversa anche a fronte di fattispecie identiche. Ai posteri l’ardua sentenza (Cit. A. Manzoni ne “Il Cinque Maggio”).
1. Cass. Sez. lav., 15 maggio 2012, n. 7515; Cass. Sez. lav., 1° agosto 2013, n. 18416; Cass. Sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24037.
2. Cass., Sez. lav., 8 marzo 2016, n. 4509.
3. Cass., Sez. lav., 9 novembre 2016 n. 22798.
4. Cass., Sez. Lav., 21 dicembre 2016 n. 26467.
5. Brollo, Disciplina delle mansioni, in Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo ius variandi, (a cura di F. Carinci) ADAPT, University Press, 2015, pag. 42.
6. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Torino, 2015, pag. 151.
7. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Torino, 2015, pag. 152.
8. Ciucciovino, Giustificato motivo di licenziamento e repêchage dopo il Jobs Act, in Mass. giur,. lav., 2016, pag. 43.
9. Sordi, La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in I. Piccinini, A. Pileggi, P. Sordi (a cura di), Roma, 2016, pag. 132.
10. Art. 1464 Cod. civ.: “Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”.
11. Cass., Sez. lav., 21 maggio 1992, n. 6106.
12. Cass., Sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10018; Cass., Sez. lav., 26 ottobre 2018, n. 27243.
13. Cass., Sez. Lav., 11 dicembre 1997, n. 12548; Cass., Sez. Lav., 15 aprile 2005, n. 7832.
14. Art. 1, comma 1, D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
15. Art. 1, comma 2, D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
16. Art. 1, comma 2, D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
17. Art. 1, comma 3, D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
18. Cass. Civ., 13 marzo 2019 n. 7167.
19. Art. 18, comma 8, Legge 20 maggio 1970, n. 300: “Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché’ al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti”.
20. Trib. Reggio Calabria 3 giugno 2013; Trib. Trento 18 dicembre 2017.
21. Trib. Milano 28 novembre 2012, Trib. Roma 8 agosto 2013, Trib. Varese 4 settembre 2013.
22. Cass., Sez. lav., 2 maggio 2018, n. 10435.
23. Cort. Cost., 14 novembre 2018, n. 194.
24. Cort. Cost. 25 maggio 2022, n. 125, punto 5.1 del considerando in diritto.
25. Rocchi, Le tutele in caso di violazione dell’obbligo di repêchage all’esito della recente giurisprudenza
costituzionale: in attesa di un intervento legislativo, in Lav. dir. Eu., 2022, 3.