CASSAZIONE: quando la reperibilità va considerata orario di lavoro?*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro studi unitario Ordine dei consulenti del lavoro provincia di Milano – Ancl Up Milano 

 

Maria Laura Picunio si confronta con la giurisprudenza su reperibilità e orario di lavoro

Con l’ordinanza in commento (Cass. Civ., Sez. lav., 23 maggio 2022, n. 16582) l’Autrice riepiloga i passaggi e le motivazioni che hanno portato, nella giurisprudenza comunitaria e in un secondo tempo in quella nazionale, a superare l’impostazione per cui il servizio di reperibilità era da considerarsi necessariamente escluso dall’orario di lavoro. L’organismo giudicante, al contrario, è chiamato oggi a compiere una verifica che ha come oggetto il fatto che dallo svolgimento di tale servizio, per le sue modalità, residui o meno la possibilità del lavoratore di gestire liberamente il tempo in cui non sono richiesti i suoi servigi.

REPERIBILITÀ, DISPONIBILITÀ E TEMPI DI NON LAVORO

Il tema che viene in rilievo è quello del trattamento dei tempi di reperibilità, tempi contrassegnati dal fatto che il lavoratore si mette a disposizione del datore di lavoro impegnandosi a recarsi nel luogo di lavoro a svolgere la propria prestazione.

La fattispecie va distinta da quella della disponibilità, nella quale il lavoratore pone egualmente a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, ma lo fa permanendo nel luogo di lavoro.

In entrambi i casi la questione riguarda il trattamento delle ore prestate nell’uno o nell’altro regime quando non sia stata ricevuta una richiesta di svolgere attività lavorativa. Caratteristica comune alle fattispecie della disponibilità e della reperibilità passiva è costituita dal fatto che in ambedue il lavoratore subisce, a prescindere dallo svolgimento della prestazione lavorativa, una limitazione alla propria libertà e alla possibilità di godere senza vincoli del proprio tempo libero.

Esse vanno infatti incluse nei tempi di “non lavoro” ossia in tempi caratterizzati dal fatto che il lavoratore, pur non svolgendo attivamente una prestazione di lavoro, non possa godere del tutto liberamente del proprio tempo.

LA POSIZIONE DELLA GIURISPRUDENZA EUROPEA Nonostante la parziale comunanza di caratteristiche tra la fattispecie della reperibilità e quella della disponibilità, l’impostazione della giurisprudenza comunitaria è stata, per molti anni, nel senso di differenziare nettamente le due figure, qualificando solo il tempo di disponibilità quale orario di lavoro.

Nell’ordinamento dell’Unione Europea la Direttiva 2003/88/CE definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali” (art. 2, punto 1) e il periodo di riposo come “qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro”.

Secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione europea, il “tempo di guardia” o di “prontezza in regime di reperibilità” di un lavoratore deve essere qualificato o come orario di lavoro o come periodo di riposo ai fini dell’applicazione della Direttiva 2003/88/CE, posto che quest’ultima non prevede alcuna categoria intermedia, un “tertium genus” 1.

 Negli ultimi anni, tuttavia, l’impostazione del giudice comunitario ha subito un ripensamento2: così, da un momento che può essere fatto coincidere con quello in cui è stata emessa la pronuncia Matzak3 si è consolidata una differente interpretazione della direttiva, secondo la quale il criterio per verificare l’ambito di applicazione della stessa non può più essere rappresentato unicamente dal fatto che il lavoratore deve permanere, nei periodi di attesa, nel luogo di lavoro.

In particolare, la CGUE ha evidenziato che il “periodo di prontezza in regime reperibilità”, per essere qualificato nella sua pienezza come orario di lavoro, non implica necessariamente l’obbligo del lavoratore di restare sul suo luogo di lavoro, essendo sufficiente che i vincoli imposti al dipendente siano di natura tale da compromettere in modo oggettivo e assai significativo la facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, nel corso dei periodi in questione, il tempo durante il quale le sue prestazioni non sono richieste e di dedicare questo tempo ai propri interessi personali e sociali.

Viceversa, qualora i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di guardia determinato non raggiungano un siffatto grado di intensità e gli permettano di gestire il proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza limitazioni significative, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che viene, se del caso, effettivamente realizzata nel corso di tale periodo costituisce orario di lavoro.

LA SOLUZIONE DELLA PRONUNCIA IN COMMENTO

Anche la Cassazione, Sez. lav., con l’ordinanza n. 16582 del 23 maggio 2022, ha affermato che il periodo di guardia va necessariamente considerato come orario di lavoro ai fini della Direttiva 2003/88/CE “qualora il dipendente sia soggetto, durante i suoi servizi in regime di reperibilità, a vincoli di un’intensità tale da incidere, in modo oggettivo e molto significativo, sulla sua facoltà di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare detto tempo ai propri interessi”. Per operare tale valutazione, secondo gli Ermellini, è necessario prendere in considerazione due elementi:

  1. il termine di cui dispone il lavoratore, nel corso del periodo di guardia, per riprendere le proprie attività professionali a partire dal momento in cui il datore di lavoro lo richieda;
  2. la frequenza media degli interventi che il lavoratore è effettivamente chiamato a garantire durante detto periodo.

In merito al termine concesso al lavoratore per la ripresa del servizio, la CGUE ha precisato che laddove tale termine, durante un periodo di guardia, sia limitato a qualche minuto, esso deve, in linea di principio, essere considerato, nella sua integralità, come orario di lavoro. Tuttavia, occorre in ogni caso stimare l’impatto di tale termine di reazione tenendo conto, eventualmente, da un lato, degli altri vincoli imposti al lavoratore, dall’altro, delle agevolazioni accordate durante la reperibilità.

Nel caso di specie esaminato dalla Corte, quattro lavoratori pubblici dipendenti del Comune di Milano, assegnati alla direzione “Protezione civile”, erano tenuti (sulla base della disciplina prevista dal contratto collettivo del comparto “Regione e autonomie locali”) in caso di chiamata durante il periodo di guardia a raggiungere il posto di lavoro assegnato nell’arco di trenta minuti, senza che fosse previsto l’utilizzo di un veicolo di servizio che consentisse loro di fare uso di diritti in deroga al Codice della Strada e di diritti di precedenza.

Tale disciplina era riferibile a tutte le aree di pronto intervento e, dunque, anche a quelle soggette a frequenti richiami in servizio e a interventi di durata media significativa. Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha riconosciuto il diritto dei lavoratori al computo del periodo di guardia nell’orario di lavoro, nonché il diritto alla concessione di un riposo compensativo quando il servizio di reperibilità cada nel giorno di riposo settimanale.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

La soluzione offerta si iscrive quindi perfettamente nel recente filone di pronunce susseguente al cambio di orientamento della giurisprudenza e al superamento della precedente chiusura. Oggi la Cassazione afferma che dal fatto di aver prestato servizio di reperibilità, ove questo debba essere considerato parte dell’orario di lavoro, deriva il diritto al risarcimento del danno, dando luogo a una ipotesi di danno in re ipsa, che non necessita che il lavoratore dimostri e alleghi il pregiudizio effettivamente subito. Si assiste a una conferma dell’impatto del nuovo orientamento giurisprudenziale anche sul piano dei diritti conseguenti all’eventuale inadempimento datoriale: se in precedenza si affermava che l’eventuale danno derivato al lavoratore dall’aver prestato servizio di reperibilità senza godere del riposo compensativo fosse estraneo alla tutela dell’art. 36 Cost.4 (e pertanto soggetto a rigorosa dimostrazione, nei suoi elementi, da parte del lavoratore) oggi tale affermazione non sembra più valida in ogni ipotesi5; nei casi in cui il servizio di reperibilità venga qualificato come orario di lavoro, infatti, la tutela spettante al lavoratore dovrà ritenersi coperta dall’ombrello dell’art. 36 Cost. In tale eventualità, pertanto, sembra difficile dubitare che, così come nelle altre ipotesi di lesione del diritto al riposo settimanale, ricondotte all’art. 36 Cost.6 sussista una presunzione assoluta di lesione della salute psico-fisica del lavoratore che, in quanto tale, vada risarcita senza necessità di fornire ulteriori dimostrazioni dell’entità della stessa.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato ne LG, 3/2023 dal titolo Il servizio di reperibilità può essere orario di lavoro: la Cassazione conferma il nuovo orientamento.
1. Nel sistema della Direttiva UE 93/104 tale nozione va intesa in opposizione al periodo di riposo, poiché ognuna delle due nozioni esclude l’altra, cfr. Corte di Giustizia UE 3 ottobre 2000, C-303/98, Simap. Sul fatto che la direttiva non preveda nozioni intermedie: Corte di Giustizia UE 10 settembre 2015, C-266/14, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras, in particolare punti
25 e 26 e la giurisprudenza ivi citata, nonché Corte di Giustizia UE 21 febbraio 2018, C-518/15, Matzak.

2. Sull’inversione di tendenza: G. Ricci, La “scomposizione” della nozione di orario di lavoro nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. giur. lav., 2021, II, 327; M. Ferraresi, Problemi irrisolti dei tempi di disponibilità, cit., 423 ss.; S.M. Corso, La “pronta” reperibilità tra “orario di lavoro” e “periodo di riposo”: una questione che rimane aperta, in Var. temi dir. lav., 2020, 1, 185 ss.; M. Marinelli, Orario di lavoro e periodo di riposo, in Arg. dir. lav., 2018, 4-5, 1178 ss.
3. Corte di Giustizia UE 21 febbraio 2018, C-218/15, Matzak, in Arg. dir. lav., 2018, 4-5, II, 1178. Va detto che, come evidenziato da S. Bellomo – L. Rocchi, Orario di lavoro, reperibilità, fruizione del tempo libero. La Corte di Giustizia e il parziale superamento della sentenza Matzak del 2018, in Riv. it. dir. lav., 2021, II, 343 ss., la fattispecie su cui la Corte di Giustizia è stata chiamata a giudicare era del tutto peculiare, avendo ad oggetto la posizione di un lavoratore cui era sostanzialmente inibita la libertà di movimento,
in quanto condizionato a presentarsi presso il luogo di lavoro nel brevissimo termine di otto minuti.

4. Cass. Civ., 19 ottobre 2015, n. 21068, cit.; Cass. Civ., 28 giugno 2011, n. 14288, cit.; Cass. Civ., 15 maggio 2013, n.11727, cit.
5. Va rilevato, tuttavia, che in una delle sentenze che hanno inaugurato il nuovo corso, Cass. Civ., 27 ottobre 2021, n. 30301, cit., si fa applicazione della precedente impostazione, riportando le motivazioni
che venivano utilizzate nella giurisprudenza più risalente, senza nemmeno troppo soffermarsi sul punto.
6. Secondo Cass. Civ., SS.UU., 3 aprile 1989, n. 1607, in Riv. giur. lav., 1990, 2, 481, in tali casi sussiste una “presunzione assoluta di danno alla salute psico-fisica”; in tal senso, espressamente, anche Cass.
Civ. 27 aprile 1992, n. 5015, (…).

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