Una proposta al mese – Il licenziamento: alla ricerca di uniformità e ragionevolezza perdute

di Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

Talvolta capita di dover illustrare ad un’azienda i rischi ed i “costi possibili” del licenziamento. Quelle italiane ancora ancora sopportano una lunga e complessa spiegazione (abituate come sono, purtroppo, alla buro-complicazione italiota), ma soprattutto a quelle di derivazione straniera sembra di indicare la strada del ginepraio più irrazionale: a loro risulta difficile in particolare capire come sia possibile avere norme estremamente diverse che insistono sulla medesima fattispecie nella stessa azienda, con lavoratori che operano nella medesima compagine fianco a fianco.

Ultimamente poi, sul tema “licenziamento”, con il triplice salto mortale del contratto a tutele crescenti, rivisto dal decreto Dignità e cassato, ma solo in un punto, da un comunicato-stampa della Corte Costituzionale (che però già ha prodotto i suoi effetti in una sentenza di merito), il consulente del lavoro è visto dalle suddette aziende come una figura mista fra uno scrittore di libri gialli e un frequentatore di circoli esoterici dediti a pratiche occulte e misteriose. E il bello (o il brutto) è che talvolta anche il consulente si sente un po’ così, di fronte a sguardi increduli o allibiti dei destinatari di così complesse ed arzigogolate spiegazioni.

È davvero il caso di trovare una norma comune, uniformando e razionalizzando una fattispecie che proprio perché drammatica, per i lavoratori ma spesso anche per le aziende, necessita di chiarezza e semplicità; e magari anche di un’attenzione rivolta alla deflazione del contenzioso (con il nostro Centro Studi dell’Ordine  dei Consulenti del lavoro di Milano, su questo aspetto abbiamo promosso una riflessione in merito all’ultimo Festival del Lavoro).

Il primo dato è che lo spirito di fondo del contratto a tutele crescenti è condivisibile; ed esso consiste nell’abbandonare la via – forzosa ed inattuale – della reintegrazione come via privilegiata, puntando piuttosto verso un indennizzo economico e lasciando la reintegra soltanto nei casi di licenziamento discriminatorio; strada già timidamente perseguita dalla Riforma Fornero, che però ha avuto il merito di scalfire per la prima volta il “totem” dell’art. 18.

Un secondo aspetto che pare ugualmente condivisibile è quello di calibrare e porre dei limiti al risarcimento economico, che se indiscriminato o lasciato alla sola valutazione del giudice potrebbe avere i medesimi effetti della reintegrazione. E se è pur vero che la Corte Costituzionale ha evidenziato (in una sentenza che tutti stiamo aspettando per coglierne i contenuti) come irrazionale e ingiusto togliere qualsiasi margine decisionale al giudicante, è anche vero che la magistratura è stata a lungo (ed è ancora) condizionata dal ritenere il licenziamento una ultima ratio, ma talmente ultima che spesso si è finito per considerare intoccabile anche chi davvero non lo meritava. Questo sia detto con la consapevolezza che la bilancia del diritto del lavoro ha, ontologicamente, un equilibrio instabile fra la tutela del lavoratore e la libertà dell’azione imprenditoriale, ma anche con l’esperienza che ci dice che, salvo casi rari, il licenziamento è il sintomo di una “unità di intenti” terminata e che è davvero difficile immaginare di ricostituire.

La prima proposta è dunque quella di applicare il meccanismo di fondo delle tutele crescenti – rivisitato come vedremo, per superare le eccezioni di incostituzionalità – a tutti i lavoratori dipendenti in caso di licenziamento illegittimo. A questa aggiungiamo che una definizione di quale sia e di come si calcoli la mensilità di riferimento deve essere uniforme (ora abbiamo due concetti differenti per individuare la mensilità di riferimento: ultima retribuzione di fatto e ultima retribuzione utile per il TFR). Proponiamo in via di semplificazione che la mensilità sia calcolata semplicemente sulla RAL (come proiezione dell’ultima retribuzione percepita) divisa per 12, più la media mensile della retribuzione variabile (premi, provvigioni, bonus etc.) stabilita per contratto collettivo o individuale, percepita negli ultimi 36 mesi precedenti al licenziamento. Un criterio semplice e di immediata elaborazione.

La seconda proposta è quella di stabilire tre fasce di indennità, con riferimento alla complessiva forza aziendale:

1.aziende fino a 15 dipendenti: (indennità attuale del CTC) da un minimo di 3 mensilità ad un massimo di 6 (data la contenutezza, non si rapporta all’anzianità di lavoro);

  1. piccole imprese UE da 16 a 50 dipendenti (nuova fascia): 2 mensilità per ogni anno di servizio * con un minimo di 6 mensilità ed un massimo di 15;
  2. aziende sopra i 50 dipendenti: 2 mensilità per ogni anno di servizio *, con un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24. .

* Il calcolo delle mensilità, sempre nell’ambito dei minimi e massimi suddetti, può essere elevato, per particolari ragioni da esplicitare nella sentenza, sino al doppio da parte del giudice (superando così il rilievo costituzionale del vincolo obbligatorio del meccanismo di calcolo).

L’introduzione della seconda fascia si rende necessaria per limitare l’impatto finanziario dell’onere risarcitorio rispetto ad aziende di minore capacità economica e ove è di norma più forte il carattere familiare e personale dell’imprenditore. A tal fine, nella definizione di piccola impresa si valuterebbe anche l’altro requisito (oltre a quello dimensionale) stabilito dalla UE per individuare tale tipologia, ovvero un fatturato non superiore a 10 milioni di euro.

La terza proposta è quella di rivedere la tassazione delle indennità da licenziamento, con una duplice agevolazione:

a) uno sconto fiscale alle indennità di risarcimento per il licenziamento illegittimo (o incentivo all’esodo) conseguenti a una conciliazione stragiudiziale, nel senso di definite prima ed in alternativa al radicamento di una causa (in altre parole, il solo deposito del ricorso, anche con definizione intervenuta prima della sentenza, farebbe decadere l’agevolazione). Lo sconto consisterebbe nell’applicare a tali transazioni un’aliquota fiscale pari al 50% dell’aliquota TFR e nessuna imponibilità previdenziale (quest’ultima, tuttavia, già in re ipsa rispetto alle somme erogate a tale specifico titolo) entro il limite della somma massima indennitaria prevista per il caso specifico (in modo da evitare eventuali abusi). In tal modo si darebbe un incentivo alle parti, in maniera più equilibrata rispetto all’attuale “offerta conciliativa” e in ogni ambito del licenziamento, di pervenire a un’ipotesi conciliativa. Lo sconto si applicherebbe, peraltro, solo con il versamento delle ritenute in modo corretto, ovvero qualora il datore non versasse le ritenute si accollerebbe in proprio il 50% di sconto, senza conseguenze per il lavoratore.

L’eventuale minore entrata fiscale sarebbe compensata sia dall’incameramento di somme ora escluse dalla offerta conciliativa pura ex art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015, sia dal limite posto alle indennità, evitando così che, come non di rado avviene, in maniera indiscriminata si qualifichino come corrisposte in conseguenza del licenziamento somme che hanno ben altra origine e sono per lo più collegate a differenze retributive (con la conseguente evasione previdenziale), senza contare il vantaggio derivante dal mancato intasamento delle sedi di giustizia e la riduzione a 360 gradi dei costi del contenzioso.

b) tassazione a titolo definitivo, consistente nell’applicazione (come ora) all’indennità di licenziamento dell’aliquota spettante ai fini del TFR (eventualmente dimezzata, nel senso della proposta “a)” che precede, in caso di conciliazione stragiudiziale) ma senza riliquidazione ex post da parte dell’Agenzia delle Entrate. La cosa ci sembra rappresentare equamente l’esigenza del lavoratore di sapere esattamente quale cifra “netta” sta intascando a fronte della cessazione del contendere (e in sostanza, della rinuncia al posto di lavoro), agevolando così le eventuali decisioni in merito. Una norma di pura equità e giustizia, considerando che la percezione di tali indennità si pone in una via di mezzo fra una componente reddituale e una meramente risarcitoria, pertanto, tassate sì, ma non considerate come mero “reddito”, per quanto a tassazione separata.

Come sempre, le proposte che esponiamo conseguono a una logica, che per quanto nell’esiguo spazio e con la necessità di sintesi, abbiamo cercato di rappresentare. Non servono per “immediatamente legiferare” (non abbiamo certo tale pretesa) ma in prima battuta per riflettere e individuare soluzioni equilibrate alle questioni in gioco.