Repechage: l’onere della prova ritorna in capo al datore di lavoro

di Laura Di Nunzio, Avvocato in Milano

Sull’obbligo di repechage, ossia sull’obbligo del datore di lavoro di verificare – prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – se all’interno del proprio organigramma vi siano posizioni lavorative vacanti in linea con la professionalità e il livello di inquadramento del lavoratore eccedentario, la giurisprudenza aveva, fino a pochi anni fa, consolidato un proprio orientamento: qualora il lavoratore eccepisse giudizialmente la violazione di tale obbligo al fine di far accertare l’illegittimità del licenziamento, lo stesso avrebbe dovuto anche indicare al giudice quali posizioni vacanti avrebbe potuto utilmente ricoprire in azienda. In difetto di allegazione, il giudice del lavoro non avrebbe potuto far altro che rigettare l’eccezione di inadempimento dell’obbligo di repechage, arrestando la propria indagine. Le prime pronunce giurisprudenziali in tal senso furono accolte dagli operatori del diritto con particolare stupore, in quanto stridenti con il dettato normativo vigente1, che poneva, oggi come allora, in capo al datore di lavoro l’onere della prova circa la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento. Il disorientamento degli interpreti inoltre derivava anche dal fatto che un siffatto orientamento denotava un inconsueto scostamento dal principio del favor lavoratoris, che invece permea da sempre il diritto del lavoro, per controbilanciare la posizione di debolezza contrattuale del prestatore di lavoro rispetto a quella di predominanza aziendale. Per comprendere la portata innovativa del richiamato orientamento, occorre fare un passo indietro e ricordare che la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento passa attraverso due verifiche:

  1. l’esistenza delle ragioni produttive e/o organizzative addotte dal datore di lavoro a fondamento della soppressione del posto di lavoro del dipendente;

  2. l’inesistenza – all’interno dell’assetto organizzativo aziendale – di posizioni lavorative ove poter re-impiegare utilmente il lavoratore, avuto riguardo al suo livello di inquadramento e – prima della riforma dell’art. 2103 c.c. ad opera del D.lgs. n. 81/2015 – del suo bagaglio professionale ed esperienziale.

Dunque, se – come detto – la legge pone a carico del datore di lavoro la prova circa la sussistenza del giustificato motivo di recesso, logica vorrebbe che entrambe le circostanze sopra richiamate (che congiuntamente integrano un giustificato motivo oggettivo di licenziamento) fossero provate da parte datoriale. Ed è proprio sul punto che invece la giurisprudenza ha tradito le aspettative degli interpreti: se infatti nessun dubbio è mai sorto in ordine al fatto che incomba sul datore di lavoro l’onere di provare giudizialmente l’effettività dei motivi tecnici, produttivi e/o organizzativi addotti a sostegno della soppressione del posto di lavoro, completamente diverso è stato il ragionamento seguito dagli ermellini con riguardo alla verifica del rispetto dell’obbligo di repechage. In quest’ultimo caso i giudici, sia di merito che di legittimità, hanno subordinato tale onere probatorio alla preventiva allegazione, da parte del lavoratore, delle posizioni aziendali vacanti che quest’ultimo avrebbe potuto utilmente ricoprire in azienda, escludendo, in difetto di allegazione, l’onere datoriale di provare l’assolvimento dell’obbligo in parola. Richiamando le parole della Suprema Corte, il principio cristallizzatosi fino al 2016 sanciva che “In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repechage”, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti2. La ragione che ha indotto la giurisprudenza a circoscrivere l’ampiezza dell’onere probatorio datoriale consiste – come si legge nella sentenza resa dalla Suprema Corte il 18 luglio 2014, n. 16484 – nell’esigenza di renderlo “ragionevole”, ossia di delimitarlo tenendo conto delle “contrapposte deduzioni delle parti e dalle circostanze di fatto e di luogo reali proprie della singola vicenda esaminata”.

A partire dall’anno 2016, la Suprema Corte ha iniziato, dapprima con qualche pronuncia e successivamente con maggiore convinzione, a sovvertire il proprio indirizzo interpretativo, riconoscendo nel precedente approdo giurisprudenziale una sostanziale ed illegittima inversione dell’onere probatorio. La principale critica mossa dalla magistratura al proprio precedente orientamento attiene alla divaricazione tra onere di allegazione e onere probatorio che ne conseguiva, addossando il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, in contrasto con i principi di diritto processuale secondo cui tali oneri (di allegazione e prova) non possono che incombere sulla medesima parte. Infatti, chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione3. Non solo: la Suprema Corte ha riconosciuto valido il ragionamento logico che gli interpreti si attendevano sin dall’origine, sottolineando come “l’opzione ermeneutica che configura a carico del datore di lavoro l’onere di segnalare una sua possibilità di ricollocazione nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale, non appa(ia) coerente con la lettera e la ratio che la L. n. 604/1966, art. 5, secondo cui l’onere della prova circa l’impossibilità ad adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a carico della parte datoriale, con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore”4. Peraltro, l’approdo giurisprudenziale consolidatosi in passato non era neppure rispettoso del principio di c.d. vicinanza o prossimità della prova, secondo il quale la prova deve essere fornita dalla parte che può più facilmente offrirla. In tal senso, non può non convenirsi sul fatto che è il datore di lavoro e non il lavoratore ad avere una più ampia visione dell’organizzazione aziendale, a detenere tutte le scritture aziendali e quindi a poter più facilmente dimostrare l’effettiva inutilizzabilità del lavoratore in altra posizione lavorativa.

Alla luce di tutte le ragioni che precedono, la giurisprudenza maggioritaria è ormai orientata nel senso di riconoscere in capo al solo datore di lavoro l’onere della prova circa l’assolvimento dell’obbligo di repechage, onere che, trattandosi di prova negativa, può essere assolto offrendo la prova di fatti e circostanze di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale5. La prova potrà essere fornita, ad esempio, attraverso la produzione del Libro Unico del lavoro relativo ai mesi immediatamente precedenti e successivi alla data di licenziamento, per dimostrare al giudice che il datore di lavoro non ha effettuato nuove assunzioni di personale con il medesimo inquadramento contrattuale del lavoratore licenziato o con un livello inferiore; o ancora attraverso la produzione dell’organigramma o del funzionigramma aziendale relativo al periodo precedente e a quello successivo alla soppressione del posto di lavoro, in modo da dimostrare l’effettività della soppressione del posto di lavoro, la riorganizzazione della struttura e la ripartizione delle diverse mansioni e funzioni laddove quelle del lavoratore licenziato siano state assegnate ad altro personale già in forza. Concludendo, deve riconoscersi che il ribaltamento interpretativo operato dalla magistratura – seppure comporti un maggiore sforzo processuale per le aziende – è maggiormente coerente ai principi che governano il processo e il diritto di difesa e, come tale, non può che essere condiviso: del resto, non si dimentichi che è la parte datoriale a sostenere la sussistenza di un giustificato motivo di recesso, pertanto – affinché venga accertata la legittimità del recesso – spetta a quest’ultimo provarne la sussistenza e l’effettività.

1 Art. 5, L. n. 604/1966.

2 Cass. Civ., sez. Lavoro, 10 maggio 2016, n. 9467; nello stesso senso Cass. Civ., sez. Lavoro, 11 luglio 2011, n. 15157, Cass. Civ., sez. Lavoro, 8 febbraio 2011, n. 3040, Cass. Civ., sez. Lavoro 30 settembre 2011, n. 20095; tra le corti di merito, ex multis, si legga Trib. Milano, sez. Lavoro, 25 marzo 2015 «Il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo che deduca laviolazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di repechage, è tenuto quantomeno ad allegare in quale posizione libera avrebbe potuto, in ipotesi,essere collocato al  fine di scongiurare il recesso. In mancanza, il datore di lavoro non può intendersi onerato dalla prova del rispetto dei principi anzidetti».

3 Cass. Civ., sez. Lavoro 5 gennaio 2017, n. 160, in termini v. anche Cass. Civ., sez. Lavoro, 20 ottobre 2017, n. 24882, Cass. Civ., sez. Lavoro, 12 gennaio 2017, n. 618, Cass. Civ., sez. Lavoro, 13 giugno 2016, n. 12101, Cass. Civ., sez. Lavoro, 22 marzo 2016, n. 5592.

4 Cass., cit. n. 160/2017.

5 Cass. Civ., sez. Lavoro, 2 maggio 2018, n. 10435.