Confini giuridici sempre più labili. Regolatori e decisori hanno il compito di riconoscere ai gig worker le tutele di base

di Piero Martello, Presidente del Tribunale del Lavoro di Milano

 

La recente sentenza del Tribunale del lavoro di Torino sul caso Foodora ha richiamato l’attenzione sul fenomeno dei fattorini che (anche per conto di altre società, diversamente denominate) vediamo sfrecciare tutti i giorni nelle nostre strade per la consegna a domicilio di cibi.

Il fenomeno, nei suoi tratti essenziali, non è del tutto nuovo: basti pensare al contenzioso che, nella metà degli anni 90, si è sviluppato attorno al caso dei pony express.

All’epoca non esistevano i telefoni cellulari, né le app, né le piattaforme informatiche e, quindi, i sistemi di contatto fra chi richiedeva l’attività e chi la prestava erano del tutto diversi da quelli attuali; ma vi sono fra le due situazioni molti elementi comuni. E che si ripresentano nel caso dei lavori e “lavoretti” nati nell’ambito della Gig economy o di altre realtà simili (sharing economy, smart working etc).

In attesa di leggere approfonditamente le motivazioni della sentenza di Torino (uscite ieri, se ne parla a pag. 162), è possibile comunque porsi qualche domanda. Una prima domanda nasce dal fatto, che, pur se i cosiddetti rider hanno concretizzato in questi ultimi anni una realtà piuttosto numerosa, non si è sviluppato un corrispondente contenzioso in sede giudiziaria.

Il fenomeno potrebbe essere spiegato con il mutato contesto normativo; con le diverse condizioni della società; con la difficoltà di auto-organizzazione degli interessati (spesso frammentati e isolati fra di loro); con la carenza di etero-organizzazione (forse i sindacati si sono accorti tardi del fenomeno); con il fatto che tali particolari modalità di lavoro soddisfano, talvolta, effettive esigenze anche dei lavoratori.

Resta il fatto che poche sono state le questioni proposte di fronte ai giudici dellavoro: il caso Foodora è, forse, uno dei pochi (se non l’unico) che ha formato oggetto di vertenza giudiziaria. E, ancora una volta, ripropone il tema (antico e permanente) dell’autonomia e della subordinazione nel rapport di lavoro.

La problematica del diritto del lavoro ha sempre ruotato sull’individuazione dell’autonomia o della subordinazione nella prestazione di lavoro.

Si tratta di un tema fondamentale nella materia. Mai risolto una volta per tutte proprio perché si confronta con i continui cambiamenti della realtà organizzativa e produttiva e con la nascita di modalità diverse nel rendere la prestazione lavorativa.

Diversità che spesso si riverberano anche sulla configurazione dei due soggetti del rapporto di lavoro, rendendo talvolta difficile la distinzione fra lavoratore subordinato e lavoratore autonomo; così come la individuazione del datore di lavoro o, addirittura, se un datore di lavoro vi sia.

Il tema deve essere affrontato, caso per caso, guardando alle specifiche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e agli accordi fra chi tale prestazione richiede e chi la fornisce.

Tenendo presente che i principali “indici” di subordinazione sono costituiti dall’esistenza di un potere direttivo e di controllo del datore di lavoro, dal suo potere di organizzare la prestazione lavorativa, dall’obbligo del lavoratore di mettere a disposizione il suo tempo di lavoro in modo continuativo, dallo svolgimento dell’attività in ambito aziendale o, comunque, individuato dal datore di lavoro.

Se tali “indici” non sussistono, allora sarà più probabile che ci si trovi di fronte a un rapporto di lavoro autonomo, nel quale il lavoratore può decidere se e quando svolgere la sua attività, come organizzarla, a favore di chi renderla.

Fra questi due estremi della autonomia e della subordinazione la realtà di fatto del mercato del lavoro presenta frequentemente delle situazioni nelle quali il confine è labile e non sempre è facile stabilire in quale campo si ricade.

La soluzione del singolo caso deve essere ricercata, innanzitutto, senza fermarsi all’aspetto formale degli accordi fra le parti, poiché spesso, sotto una apparente qualificazione di autonomia si può nascondere una effettiva subordinazione e i margini di libertà di scelta sono più apparenti che reali. La “flessibilità” può talvolta rispondere a effettive esigenze del prestatore di lavoro; ma può anche celare forme intense di precarietà lavorativa.

A proposito di coloro che consegnano a domicilio dei pasti, quanto meno singolare pare il termine di rider, mentre più appropriato sarebbe il consueto e vecchio termine di fattorini. Viene il dubbio che il ricorso a parole straniere serva a distrarre l’attenzione da realtà molto più prosaiche e nostrane. Parlare di rider fa pensare a cavalcate nell’ampia prateria dell’autonomia lavorativa. Situazione che, in molti casi dei “lavoretti” della gig economy, risulta difficile individuare.

Pare difficile, infatti, ritenere che si tratti di fenomeni caratterizzati da significativa autonomia.

Occorre ricordare che la legislazione del lavoro si fonda sul postulato (da tutti condiviso) della asimmetria del rapporto di lavoro, nel senso che le due parti di esso (datore di lavoro e lavoratore) non hanno la stessa forza contrattuale; non foss’altro perché il datore di lavoro può scegliere chi assumere fra un’ampia platea di soggetti, mentre una analoga libertà di scelta non ha il lavoratore. Non si può evitare, quindi, di indagare sulla effettiva esistenza di una siffatta libertà di scelta e di una reale autonomia. Ricordiamo, in materia simile, la sentenza emessa dal giudice del lavoro di Londra a proposito degli autisti di Uber, che sono stati qualificati come worker, figura che nel diritto inglese indica un lavoratore non dipendente ma neppure autonomo. Il giudice ha accertato che Uber esercita un potere di controllo e di organizzazione sull’attività dell’autista e ha riconosciuto il diritto a una giusta retribuzione e all’applicazione delle norme sull’orario di lavoro.

Occorre, comunque, evitare tentazioni luddiste e di pregiudiziale diffidenza. Ma, al tempo stesso, occorre osservare con attenzione fenomeni ove spesso è labile la linea di confine fra esaltazione dell’autonomia e mortificazione della persona; fra tutela della libertà individuale e compressione dei diritti fondamentali.

Il progresso e le nuove tecnologie possono e devono diventare occasione propizia per tutti i soggetti del rapporto di lavoro.

Bisogna, però, che le nuove situazioni che man mano si creano sul mercato del lavoro trovino adeguata regolamentazione sia nella legislazione sia nei contratti collettivi. In linea di principio, non si può escludere che, anche in un contesto di autonomia, si possono riconoscere ai lavoratori in questione alcune tutele di base in materia di previdenza, infortuni, retribuzione minima. Diventa importante, quindi, il ruolo dei regolatori politici, dei decisori istituzionali che sappiano adottare gli opportuni provvedimenti per rispondere alla sfida dei problemi posti dalle nuove realtà lavorative. Altrettanto importante sarà il ruolo della contrattazione collettiva, nell’ambito della quale i soggetti dell’autonomia privata realizzino un adeguato assetto dei reciproci rapporti, capace di conciliare e di tutelare i diritti e gli interessi di entrambe le parti.

Una equilibrata convergenza di tali interventi pare la prospettiva più idonea a risolvere i problemi creati da una realtà lavorativa che pare destinata a diffondersi rapidamente.

1 Articolo pubblicato sul quotidiano Il Sole 24 ore dell’8 maggio 2018, pag. 10 nella rubrica “Nuovo lavoro, quale diritto / 1. Il dibattito del sole 24 ore”.

2 Ndr. Del medesimo quotidiano da cui è tratto l’articolo.